GHEMEL

La prima cosa che Tommaso Agresti notò al rientro dalle ferie fu una busta gialla, appoggiata proprio al centro della sua scrivania.

Sembrava una comune busta imbottita, di quelle usate per le spedizioni. L’anziano editore se la rigirò tra le mani, più confuso che persuaso.

Sulla busta non c’era mittente, né destinatario. Non era stata nemmeno affrancata, forse l’avevano consegnata a mano. Sopra qualcuno aveva appiccicato un post-it rosa. Una sola parola, il cui significato gli sfuggiva. Una scritta in stampatello: “GHEMEL”.

Uno scherzo, forse? La grafia era troppo ordinata ed elegante per essere quella della sua segretaria, che pure doveva saperne qualcosa. Agresti si alzò, girò intorno al tavolo e spalancò la porta, chiamando a gran voce Tatjana. Dalla stanza accanto nessuno rispose. Controllò l’orologio da polso. Possibile che alle nove passate quella sfaticata non fosse ancora arrivata? Solo allora gli venne in mente che la segretaria era in vacanza con la famiglia. Tranne lui, nessun altro avrebbe trascorso la settimana di Ferragosto negli uffici della casa editrice. Meglio così.

Tornò a sedersi alla scrivania. Inforcò gli occhiali e accantonò la busta in un angolo, sopra una pila di manoscritti da rivedere. Svogliatamente si mise al lavoro. Accese il computer, per controllare la posta elettronica. Nell’ultima settimana aveva ricevuto più o meno un centinaio di e-mail. Sbuffando come un mantice, cominciò a leggere quelle più datate. Dopo dieci minuti di noia cambiò idea, risalì in cima alla lista e continuò con quelle più recenti. A suo modo lavorava con metodo, contrassegnando in rosso le e-mail che meritavano una risposta in tempi brevi, in giallo quelle a cui poteva rispondere con calma e in verde quelle che avrebbe cancellato senza leggere.

Soddisfatto, a metà mattinata decise di prendersi una pausa. Si concesse un caffè al distributore, apprezzando il fatto che non ci fosse la fila. Passeggiò anche lungo il corridoio, per sgranchirsi un po’ le gambe. Fu solo quando rientrò in ufficio, a mezzogiorno passato, che si ricordò della busta gialla, abbandonata sulla scrivania. La prese tra le mani, la scosse. Delicatamente passò l’indice sotto il bordo e staccò il lembo incollato alla carta. Ne estrasse un quadernetto scolorito, rovinato dall’acqua, e un plico di fogli tenuti insieme da una graffetta. Cominciò da quelli.

Il suo nome, in realtà, non era Ghemel. “Ghemel” in tigrino significa “Cammello”. Furono i suoi compagni di squadra a dargli questo soprannome, per via del collo lungo e sottile come quello delle giraffe o dei cammelli, che popolano la terra dov’era cresciuto. Veniva da un posto chiamato Mai- Mine, un villaggio assolato dell’Eritrea, che l’ultima guerra con l’Etiopia aveva devastato, sul finire degli anni Novanta. Lo chiamassero pure Ghemel, pensava svettando fiero tra i pali. Quando era in porta lui, nessuno riusciva a segnare.

«Siete soltanto invidiosi!» diceva agli amici, scoprendo i denti in un largo sorriso.

Comunque sia, col tempo Ghemel si affezionò a quel soprannome. A quindici anni, quando decise che per vivere avrebbe fatto il poeta, cominciò a firmare così le sue creazioni. Non scriveva mai soltanto nella lingua del suo Paese, ma traduceva sempre in inglese i versi che aveva composto. A chi gliene domandava la ragione Ghemel rivelava un sogno, con gli occhi pieni di luce: diventare famoso, un giorno, in tutto il mondo.

Per quale motivo, a vent’anni, Ghemel decise di lasciare il suo villaggio, rischiando la vita in un viaggio dalle condizioni disumane, possiamo solo immaginarlo. I crimini perpetrati dalla dittatura di Iasias Afewerki, le condizioni di schiavitù mascherate da servizio militare, la prigione a cielo aperto del Corno d’Africa per gli oppositori politici. Storie diverse, che si somigliano tutte: come altri prima di lui, Ghemel voleva solo scappare dall’orrore.

Così se ne partì una notte di fine settembre. Una notte senza luna, sinistro presagio. L’aria era immobile, a quell’ora, ma non ancora calda. Ghemel sapeva di meritare una possibilità. Ne era certa anche sua madre Gabresellah, sarebbe diventato un grande poeta. Fu la famiglia a racimolare per lui la somma necessaria, una cifra impensabile per Ghemel: 750 dollari. Il costo del biglietto che hanno pagato i sostenitori di Trump per cenare col Presidente a Capodanno corrispondeva a una vita, in Eritrea.

Insieme ad altre ventotto persone, Ghemel attraversò il Sudan su un fuoristrada. I bambini piangevano, ma gli adulti avevano la speranza dipinta sul volto. Erano diretti alla volta di Tripoli, dove avrebbero dovuto intraprendere la traversata del Mediterraneo. Impiegarono una settimana ad attraversare il deserto, che a loro sembrò un’eternità. Al confine con la Libia, come pattuito, l’autista consegnò Ghemel e i suoi compagni di viaggio a due arabi. Anche loro facevano parte della stessa organizzazione. Stiparono tutti su un camion, con altre settanta persone, e partirono.

A bordo l’aria era irrespirabile, tossica. Ghemel sentì lo stomaco contrarsi e un conato di vomito gli salì alla gola. C’era puzza di sudore stantio, di urina e di paura. C’era odore di morte. Il terzo giorno un bracciante siriano, malato di diabete, si sentì male. Urlava dalla disperazione, implorava per avere un goccio d’acqua. Nessuno poté prestargli aiuto. I libici, anzi, lo picchiarono, non vollero fermarsi. Quell’uomo non arrivò vivo a destinazione.

Nemmeno Ghemel, in realtà, riuscì a raggiungere Tripoli. Qualcosa andò storto, perché i trafficanti cambiarono idea lungo il tragitto. Improvvisamente i soldi che gli aveva dato non erano più sufficienti, ne volevano altri. Deviarono verso Bani Walid, in Tripolitania. Fu in una casa isolata, alle porte della città, che avvenne il processo di selezione. Uomini incappucciati, vestiti di nero, divisero i migranti per sesso e religione. Gli uomini musulmani potevano proseguire il viaggio, a patto che avessero abbastanza denaro. I cristiani, invece, furono giustiziati tutti. Risparmiarono solo le donne. Per disprezzo, non per pietà.

Non potendo pagare i trafficanti, Ghemel fu rinchiuso in un campo di detenzione illegale. Un lager nel deserto, sorvegliato da guardie armate. Gli assegnarono un codice: il numero 59. Arrivarono al campo nel cuore della notte, era buio pesto. I libici scaricarono i prigionieri davanti a un capannone e li obbligarono a entrare. Chi protestava veniva colpito ferocemente, con il calcio del fucile. Li spogliarono di tutto, soldi, telefoni, gioielli, compresi quelli di poco valore. Persino i vestiti, se in buone condizioni.

Pur di non separarsi dal suo quaderno, anche Ghemel fu costretto a cedere qualcosa. Barattò le scarpe da ginnastica che aveva ai piedi. Erano nuove, l’ultimo regalo della madre. Sfinito, si lasciò cadere in un angolo. Raccolse al petto le ginocchia, incrociò le braccia e ci appoggiò sopra la fronte. Si concesse un pianto dignitoso, da uomo. Piangeva in silenzio, senza singhiozzi. Era sul punto di addormentarsi, quando accanto a lui si rannicchiò una ragazzina. Tremava e si lamentava debolmente. Era seminuda, un rivolo di sangue ancora fresco le colava tra le cosce. I carcerieri l’avevano violentata a più riprese.

Ghemel allungò una mano, fino a raggiungere quella di lei. La sua prima reazione fu di ritrarsi. Il ragazzo continuò pazientemente a carezzarla, con una dolcezza tale che a poco a poco le dita di Jasma si aggrapparono strette alle sue e scivolò nel sonno. Anche gli altri prigionieri dormivano per terra, tra gli insetti. Quelli che ci riuscivano, almeno. Non c’era modo di lavarsi, non c’erano servizi igienici. Erano circondati dai loro stessi escrementi. I materassi, gettati sul pavimento, erano sformati, unti e neri di sporcizia.

Da quanto tempo non mangiavano, non bevevano? I carcerieri distribuivano una razione di cibo soltanto una volta al giorno. Un po’ di pane e di acqua sporca, a volte salata. Era acqua di mare. Ghemel e i suoi compagni lavoravano come schiavi alla mercé dei padroni locali, per pagarsi l’ultimo tratto del viaggio. Quello che li avrebbe portati in Italia. Quando provavano a ribellarsi venivano insultati, picchiati a morte. A volte le guardie torturavano i prigionieri per convincerli a farsi mandare soldi dalle loro famiglie, altre semplicemente per divertirsi.

Se possibile, però, la notte era anche peggio. Una domenica, dopo essersi ubriacati, i libici fecero irruzione nel capannone. Erano armati di mitra. Trascinarono fuori un gruppetto di ragazzi e li costrinsero a correre in cerchio intorno a loro. Gli spararono addosso, usandoli come bersagli mobili. Caddero in due. Ordinarono a Ghemel e a un paio di prigionieri di seppellirli a pochi metri dal dormitorio. Ridevano come demoni. Fu quella notte che Ghemel scrisse “Tempo sei maestro”.

Ogni giorno che passa, gli errori dell’uomo sono sempre di più / lontani dalla Pace / presi da Satana / esseri umani che non provano pietà o un po’ di pena.“

Il suo nome, comunque, non era Ghemel. Il suo vero nome era Hayat Zerezghi. Ci aveva impiegato più di un anno e mezzo, ma alla fine aveva pagato i trafficanti ed era salito su un gommone. Debole, malnutrito, disidratato com’era, Hayat ce l’aveva fatta a raggiungere la costa siciliana. Aveva attraversato quel braccio di mare, che si frapponeva tra la sua terra e il suo futuro. I soccorritori lo fecero sbarcare per primo. 45 chili per un metro e ottanta d’altezza, lo sguardo spento di chi ne ha viste troppe.

A tutti quelli che chiedevano chi fosse stato a ridurlo così, Hayat rispondeva, con un filo di voce: «Libia, Libia».

La Libia, lo Stato con cui l’Italia e l’Unione Europea hanno stretto accordi sull’immigrazione.

Tommaso Agresti si appoggiò sullo schienale della sedia, disgustato, reclinando il capo all’indietro. Si tolse gli occhiali e li appoggiò sulla scrivania. Si passò le mani sul viso, come se il buio potesse scacciare dagli occhi l’immagine di quel ragazzo pelle e ossa, appena uscito da un campo di concentramento. Hayat era morto all’ospedale di Modica, di tubercolosi polmonare. I medici non erano riusciti a salvarlo. Prese in mano il quaderno a quadretti, lo sfogliò lentamente.

A destra c’erano i versi in tigrino, a sinistra la traduzione in inglese. Alcune pagine erano incollate tra loro e l’acqua aveva sciolto l’inchiostro in diversi punti, ma la maggior parte delle poesie si era salvata. Uno degli ultimi testi recitava: “Nessuno mi aiuta e neanche c’è qualcuno che mi consola […] ora non ho nulla perché in questa vita nulla ho trovato”.

Fu leggendo questo verso che Tommaso Agresti decise di fare qualcosa per cui non provava più interesse da anni. Prese in mano la penna e cominciò a tradurre in italiano le poesie di Ghemel.


I versi delle poesie citati in questo racconto sono tratti da “Tempo sei maestro” e “Non ti allarmare fratello mio” di Tesfalidet Tesfom (noto come Segen), il migrante eritreo morto in Sicilia lo scorso aprile. Purtroppo è alla sua vicenda, e a quella di tanti altri, che il mio racconto si ispira.

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